VIII ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON PAOLO
Fano, Cattedrale, 9 Ottobre 2002
Gal. 2, 1-2.7-14
Luca 11, 1-4
OMELIA
In questa pagina del Vangelo, San Luca ci presenta la sua versione del modello di preghiera che Gesù ha insegnato, come risposta alla domanda di uno dei discepoli: “Insegnaci a pregare”. Noi siamo abituati al testo del Padre Nostro come lo presenta San Matteo, mentre quello di Luca è più breve e forse, secondo alcuni commentatori, riflette meglio il nucleo e lo schema originario delle parole del Signore
Quando ascoltiamo o ripetiamo questa preghiera, la familiarità che abbiamo con essa fin da bambini ci toglie forse la possibilità di renderci conto di tutta la forza che essa ha, specialmente nel fatto di rivolgersi a Dio in modo così nuovo e mai ascoltato prima. Noi siamo invitati a chiamarlo appunto “Padre”, con una espressione che sembra tradurre l’aramaico “Abbà”, l’appellativo con cui il bambino chiamava suo padre: “Babbo, babbino”. Anche se l’immagine di Dio come Padre era stata usata da qualcuno dei profeti, rivolgersi a lui in un tono così familiare era impensabile, prima di Gesù. Questo solo fatto ci fa capire come fosse Gesù, il Maestro che camminava per le strade della Palestina, che aveva il potere di rivolgersi a Dio come Abbà, e che invitava ad essere partecipi del Regno di Dio pubblicani e peccatori, insegnando loro a ripetere questa parola, Abbà, padre.
Proprio facendo il confronto con il testo del Padre Nostro di San Matteo, notiamo in questa redazione di San Luca l’assenza di una frase, quella che è, senza dubbio, la più difficile da pronunciare, quando, almeno, pensiamo al significato di quello che diciamo: “Sia fatta la tua volontà”. Il pregare con quelle parole dovrebbe voler dire che noi siamo sempre pronti ad accogliere quello che la Provvidenza dispone per noi, con la stessa apertura con la quale Gesù ha detto nel Getsemani: “Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Parole difficili, dure da dire e più dure ancora da accettare. Ma Luca non le usa.
A pensarci bene, però, le due espressioni che precedono: “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”, contengono in sé anche l’altra richiesta. Il chiedere a Dio di santificare il suo nome significa chiedergli di rivelare se stesso e il suo mistero nella nostra storia quotidiana, in modo che tutti gli uomini lo possano riconoscere, lodare e amare, e lo possano celebrare come il Santo, come il Signore. Per questo, la Bibbia nella traduzione interconfessionale in lingua corrente rende la frase con: “Fa’ che tutti ti riconoscano come Dio”. Quanto all’altra invocazione, “Venga il tuo regno”, anche essa va nella stessa direzione, dato che la volontà divina ha per oggetto l’attuazione del regno di Dio.
Questa espressione, “regno di Dio”, è stata privilegiata dalla teologia della liberazione latinoamericana, come parola chiave per indicare il fine dell’azione della comunità dei discepoli di Cristo. È il tema fondamentale nella predicazione di Gesù, che indica così il progetto divino per il mondo e per l’umanità, e quindi per ciascuno di noi. La costruzione del regno di Dio è nello stesso tempo un dono di grazia, qualcosa che cresce nel silenzio e nel nascondimento – come il seme affidato alla terra -, ma è anche il risultato del nostro impegno e della nostra apertura al progetto di Dio. Di ognuno di noi, se rispondiamo con disponibilità alla proposta di amore di Dio, si può dire che stiamo costruendo il regno di Dio, che diamo per esso il nostro contributo, piccolo o grande, in un luogo o in un altro, svolgendo una mansione o un’altra. Quello che ci definisce non è tanto il ruolo ricoperto, che dipende da scelte che spesso non sono neppure nostre, ma la sincerità nel porci a disposizione di un progetto, e nel fare in esso quello che possiamo, perché il seme cresca, si sviluppi e dia frutto.
Dato che oggi commemoriamo insieme sia babbo sia don Paolo, non è fuori posto ricordare che tutti e due, pur seguendo degli itinerari di vita molto diversi, hanno lavorato per la costruzione del regno di Dio qui in terra, e solo Dio può sapere chi dei due ha vissuto la sua vita di discepolo di Cristo in maniera più piena e più coerente. Il Signore ha chiamato uno alla vita di famiglia, per essere sposo e padre, e ad una vita nel lavoro professionale, nel caso specifico come infermiere, a contatto con medici e malati. Lo stesso Signore ha chiamato l’altro al ministero sacerdotale, in una scelta di vita celibataria e missionaria, nel servizio a persone di terre lontane, nelle zone povere del Brasile. La santità non è indicata dal “cosa” e dal “dove”, ma soltanto dal “come”: qualunque sia la chiamata, come è stata la mia risposta? Pensando alle diverse parabole di Gesù, mi chiedo: Con quale generosità ho disposto dei talenti messi a mia disposizione? Con quale premura mi sono preso cura del prossimo abbandonato e bisognoso? Con quanta attenzione ho mantenuto accesa la lampada della fede? Sono questi i punti sui quali dobbiamo esaminarci, per capire come anche noi stiamo dando il nostro contributo alla costruzione del regno. Se questo sia accaduto in casa o nel posto di lavoro o nella corsia di un ospedale o in chiesa, a Fano, in Brasile o in Africa, è un fattore secondario: l’importante è nell’aver acconsentito ad andare là dove il Signore chiama, a fare quello che il Signore mi chiede di fare. “Venga il tuo regno”.
Riflettendo ancora sulle letture offerteci oggi dalla liturgia del giorno, non ho potuto fare a meno di notare, nella prima lettura, il passaggio della lettera di San Paolo ai Galati, nel quale l’Apostolo difende la sua missione contro le critiche dei suoi nemici e ricorda un episodio che lo ha visto entrare in contrasto proprio con Simon Pietro, quello che lui stesso aveva definito una delle “colonne” della Chiesa (Gal 2,9). Dato che di questa storia conosciamo solo la versione di San Paolo, dobbiamo accoglierne la testimonianza per come lui ce la presenta: si trattava di una questione di atteggiamento, più o meno prudente, più o meno dialogante; qualcuno direbbe, con un’espressione che non mi piace: più o meno diplomatica. Pietro cerca forse di salvaguardare le diverse sensibilità e i difficili equilibri interni di una comunità ancora incerta nel cammino da prendere; Paolo è radicale e non disposto alle sfumature e ai compromessi. Vi leggo un commento su questo passo, scritto dal biblista Gianfranco Ravasi: “Il rapporto di Paolo con Pietro è esemplare. Da un lato, egli riconosce a Kefa la funzione di ‘colonna’ per la verità del vangelo; d’altro lato, però, non esita a scegliere la via della contestazione, quando le decisioni concrete pastorali sono ambigue o discutibili. Obbedienza e libertà, indipendenza e comunione non si escludono, quando chiara è la scala di valori in cui esse si esplicano” (La buona novella, p. 216). Anche don Paolo, nel suo libro sul Nuovo Testamento, si riferisce al fatto e scrive: “Possiamo criticare la durezza della posizione di Paolo, ma dobbiamo riconoscere il grande merito per aver lottato per liberare il vangelo di Cristo dalle pastoie del giudaismo” (Das comunidades de ontem às comunidades de hoje, p. 116).
Questo passaggio, ci fa riflettere sul rapporto che, all’interno della Chiesa, può esistere tra le diverse componenti, tutte ugualmente conquistate dalla parola del Signore e dedite alla missione di annunciare il vangelo al mondo intero, ma talvolta divise da modi differenti di vedere soluzioni pratiche, cammini da percorrere, accenti da mettere o da togliere. Non si tratta, ovviamente, della diversità che esiste tra la fede della Chiesa e quella di coloro che vorrebbero costruirsi una propria religiosità, nella quale si accetta solo quello che siamo disposti ad accettare. È quella che, da qualche parte, si definisce come religione da super-market, composta cioè da tutto quello che fa comodo prendere su, a seconda dagli interessi personali e delle tendenze o delle mode del momento. Pur essendo un fenomeno molto frequente, esso è tristemente superficiale e non ha niente a che vedere con il doloroso dissenso di coscienza, che ci indica ora la Parola di Dio.
Mi riferisco infatti alla sofferenza di chi, entrando in contrasto con altri nella Chiesa, sente il conflitto di coscienza di fare presenti le proprie osservazioni critiche e anche il proprio disaccordo, pur sapendo che essi potranno essere mal accolti e mal interpretati. San Paolo si oppose a San Pietro “a viso aperto”. In qualche modo, certamente meno drammatico, questo è successo spesso a babbo, che era sempre pronto alla critica, per lo più costruttiva, e non nascondeva le sue osservazioni ai parroci, che avevano imparato ad essere pazienti con lui, ma che sapevano anche apprezzarne l’acume e l’onestà. Lo stesso, in misura molto diversa e molto più grave, è accaduto a don Paolo, che, per non nascondere le proprie scelte e per vivere con sincerità la comunione ecclesiale, ha sperimentato lunghi momenti di amarezza e di isolamento, proprio nella difficoltà di capire e di essere capito da altri cristiani come lui, sacerdoti come lui, sinceri forse come lui, e come lui dediti alla missione di evangelizzare.
È l’esperienza dolorosa di chi soffre la persecuzione non ‘per la Chiesa’ ma ‘dalla Chiesa’, quando elementi certamente troppo umani si confondono con le rette intenzioni della missione, quando si mescola il vino schietto della Parola di Dio con la molta acqua delle nostre prudenze o delle nostre ambiguità. Una cosa è certa: ad essere sinceri c’è spesso da rimetterci, anche nella Chiesa. Ma è soltanto con lo sforzo sofferto della sincerità e della chiarezza che si possono compiere i passi in avanti: attraverso la continua revisione delle nostre scelte operative, attraverso la correzione fraterna, attraverso l’accoglienza aperta delle opinioni degli altri, attraverso la purificazione costante delle nostre intenzioni. La sclerosi delle convinzioni facili, non più verificate con la realtà, può rendere inefficace il nostro ministero, facendoci confondere tradizioni umane con parole divine, abitudini superate con comandamenti immutabili, metodi di azione con finalità assolute. In occasione della consegna del premio “La Fortuna d’oro”, don Paolo aveva fatto riferimento a questo problema ed aveva detto: “Non ho paura di parlare di queste cose, perché vedo che la gente capisce, anche in Brasile; la gente è capace di comprendere e l’amore verso la Chiesa diventa così più adulto, più maturo, più responsabile, direi più cristiano. (…) E poi non dobbiamo mai avere paura della verità. E qui mi piace ricordare San Gregorio Magno che diceva: ‘È meglio suscitare uno scandalo che tacere la verità'”.
Torniamo alle parole del Padre Nostro: “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”. In queste richieste presentate a Dio sta la definizione del nostro impegno di vita, dato che, se la nostra domanda a Dio è sincera, questo vuol dire che noi mettiamo noi stessi a sua disposizione per far sì che il suo nome sia santificato e perché il suo regno venga. Ognuno di noi ha un suo contributo, piccolo a grande, da offrire. E una cosa è certa: questo ideale non diventerà concreto senza la nostra collaborazione. Se la mia parte di lavoro resterà incompiuta, per la mia mancanza di buona volontà, nessun altro potrà compierla al posto mio, e la crescita del regno di amore e di pace, di fraternità e di giustizia resterà frustrata per colpa mia.
L’esempio di chi ci ha preceduto nell’incontro al Padre ci serve di esempio e di stimolo. Parliamo di povere persone, con i loro limiti e i loro difetti. Ma li abbiamo visti impegnati a compiere il loro rispettivo dovere, coscienti di fare la volontà di Dio; li abbiamo apprezzati nella loro onestà e sincerità, pronti a testimoniare la verità ‘a viso aperto’. Questo esempio ci incoraggia a fare, ciascuno di noi nel proprio ruolo e nella propria collocazione storica, la nostra parte nella costruzione del regno.
E a questo proposito, vorrei concludere usando ancora una citazione di don Paolo, tratta dalle parole che aveva detto ai fedeli di Camaçari al momento di partire dal Brasile per tornare a Fano, nella prima fase della sua malattia: “Talvolta pensiamo a Dio solo come a colui che ci deve offrire qualcosa. L’importante per Dio è che noi seguiamo il suo esempio, che cerchiamo di spargere un po’ di amicizia, di amore, di comprensione, che cerchiamo di seguire la sua bontà, dato che il nostro fine nella terra è appunto di costruire sempre di più nella nostra famiglia, nella nostra vita, attorno a noi, il Regno di Dio. Nella misura in cui il Regno di Dio sarà costruito, abbiamo la sicurezza che stiamo costruendo la felicità non solo per noi ma anche per tutti i nostri fratelli”.
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”. Amen.