Paolo Tonucci di Fano, che condivide con Renzo Rossi – Giuseppe Ceccherini e — fra non molto — un altro ancora, la esperienza di Salvador Bahia in Brasile, è tornato in Italia per un breve periodo di riposo. Riportiamo qui sotto le sue prime impressioni. Colpisce un motivo di fondo: la convinzione di non essere andato laggiù a portare… la cosiddetta civiltà, ma a condividere una sorte e ad animare le specifiche ed originali possibilità che, sotto ogni profilo, porta con sé quel popolo meraviglioso. In questo proposito va vista la valutazione critica che Paolo Tonucci fa di un certo modo di mandar soldi in Brasile, cioè alla maniera del benefattore, del soccorritore. La sua critica non è certo un brano di pauperismo alla moda. Contiene invece il proposito che tutto — anche i soldi che devono essere segno di scambio — siano filtrati nella realtà della gente, nella partecipazione della gente alle iniziative del proprio sviluppo. Laggiù i preti non devono esser quelli che hanno i soldi in Italia o dall’Italia. Ma quelli che diventano veri poveri coi poveri ed accrescono nella Chiesa di Dic lo scambio delle reciproche conoscenze e dei reciproci servizi. (A. N.)
Agosto – Dicembre 1969
E’ più di un mese che mi ritrovo in Italia per un periodo di riposo. E’ per me spontaneo ripensare ai quattro anni che ho passato in Brasile, ma i problemi, i fatti, i ricordi si accavallano e diventa difficile e faticoso dire a voce alta quello che penso.
Che effetto fa, dopo quattro anni di Brasile, tornare in Italia? E’ abbastanza strano, in un primo momento pare di sognare, di essere in un altro mondo. Ormai avevo fatto l’abitudine con la situazione di povertà di laggiù, che mi impressiona, con l’impressione di uno schiaffo, il vedere ora le case piene di generi voluttuari, di conforts, la gente ben vestita, frettolosa, preoccupata di far quattrini, i bambini ben puliti, sani e ben vestiti… Allora rivedo le case di fango, i bambini col pancino dilatato, denutriti, la gente che lavora, ma non guadagna per vivere. Perché questo? Noi facciamo presto ad accusare gli uomini del Terzo Mondo di essere dei pigri, degli indolenti, ma perché non pensiamo a tutte le componenti di questo terribile stato di cose? Perché non ci ricordiamo del terribile circolo vizioso della fame? Cosa può fare uno che nasce con l’eredità della fame e di tutte le malattie che le fanno corona, che vive in un clima che per l’umidità e il caldo riduce sensibilmente le possibilità di lavoro, con l’analfabetismo nazionale e straniero che sfrutta le ricchezze immense del Brasile?
E’ facile accusarli di pigrizia quando i nord-americani e gli altri stranieri stanno rubando i minerali preziosi e tutte le ricchezze del paese, approfittando della connivenza dei latifondisti e dei militari che sono al governo. Ma accusandoli di pigrizia, noi ci laviamo le mani e non pensiamo che di questo colonialismo siamo colpevoli anche noi, col nostro tacere, col nostro non sensibilizzare l’opinione pubblica su questo grave peccato. « Chi vede il proprio fratello patire necessità e chiude il suo cuore… ». E poi magari condanniamo i guerriglieri perché usano violenza, dimenticandoci della continua violenza degli stranieri e dei governanti contro tutto un popolo… Ma accusandoli di pigrizia, non vediamo quali sono i valori che loro ci possono dare, valori profondamente cristiani, che noi abbiamo dimenticato, preoccupati come siamo di inseguire la ricchezza senza pensare di fermarci ad osservare la vera ricchezza che abbiamo dentro di noi, la vera ricchezza che c’è nei nostri vicini. Molte volte si pensa che noi siamo quelli che arricchiscono i brasiliani. Non è vero, siamo noi che siamo arricchiti, che impariamo da loro cosa vuol dire l’amicizia, l’attenzione alla persona, l’ospitalità, l’attenzione alle piccole cose. Un’amicizia, sopratutto; che deve essere gratuita, di qualcuno che dà senza pretendere niente in cambio, senza sottomettere l’amicizia ad altri valori. In fondo l’amicizia è come un sacramento, un segno della presenza del Cristo. Vivendo l’amicizia noi possiamo far sí che il Cristo sia presente in mezzo a noi.
Sarebbe un evidente errore, il voler determinare quello che deve esser il nostro lavoro, prché il nostro lavoro deve sorgere dalla vita con loro, emergere dal di dentro, non essere schematizzato dal di fuori. Stavo pensando in questi giorni al fatto che Gesù, che è venuto sulla terra per salvare gli uomini, abbia « sprecato » trent’anni nel lavoro, nel silenzio di Nazareth e solo tre anni nell’« apostolato ».
Sembra che il Cristo abbia avuto bisogno di quei trent’anni per imparare il mestiere di uomo, per diventare uno come gli altri, per capire gli altri dal di dentro. Il nostro lavoro può muoversi solo in questa direzione, un lavoro che non si fa vedere molto, i cui frutti sono alquanto « sotterranei ». Ma noi non andiamo in Brasile a portare qualcosa, ma a vivere con loro il Cristianesimo. E vivere il Cristianesimo come loro lo vedono, lo sentono, come Dio vuole che loro lo vivano. Perché evidentemente il Cristianesimo è una vita troppo ricca per essere vissuta in pienezza da tutti nella stessa maniera. Ogni popolo lo vivrà come è capace, perché è Dio che gli dà questa capacità. E i brasiliani scopriranno come vivere il Cristianesimo vivendolo e tentando di viverlo ogni giorno, e noi lo scopriremo con loro, in un atteggiamento di gente che cerca, che non sa, che non ha, che è sempre disponibile.
E’ in questo contesto che mí pare opportuno porre il problema dei soldi, i soldi che ci vengono inviati dall’Italia. E’ chiaro che fanno del bene, è chiaro che servono ai nostri fratelli brasiliani; ma mi pare che normalmente il nostro atteggiamento non dovrebbe essere quello di dare, anche nella forma meno paternalistica possibile, ma l’atteggiamento di gente che sta con loro, che non vuol essere piú ricca di loro, che patisce ín tutto con loro, come loro. Se no, noi non saremo mai dei poveri; saremmo degli amici dei poveri, ma non poveri noi stessi.
Con questo non voglio dire che non bisogna aiutare i poveri, i sofferenti, che loro non ne hanno bisogno, ma ognuno deve agire secondo la propria vocazione e mí pare che Gesú ci stia chiamando sempre piú non ad essere dei benefattori, ma propri poveri, per aiutare i poveri non dal di fuori, ma dal di dentro.
E’ un discorso questo che non è completo, forse è unilaterale. Ma è difficile camminare sul filo del rasoio, stare nel mezzo — mi pare piú naturale, piú « cristiano » buttarsi con loro, perché se non ci buttiamo con loro, siamo senza di loro… Queste, naturalmente, non vogliono essere affermazioni; ma posizioni di coscienza per chi sta ricercando di vivere la povertà, quella povertà di cui si parla forse troppo, ma che forse è tanto poco vissuta, perché è facile la povertà, ma essere poveri… beh! è un altro problema!
In questa linea di tentativi di vivere come gli altri, conserveremo la nostra comunità « italiana », ma tenteremo sempre di stare ancor di piú in mezzo alla nostra gente, per diventare come loro, per vivere come loro e per questo penso che sarà naturale andare a lavorare. Sta diventando questa un’esigenza profonda per ciascuno di noi, che ci pare che così potremo realizzare meglio il nostro essere sacerdoti… Forse così potremo fare meno apostolato, ma forse potremo incarnarci di più, lievitare gli altri dal di dentro.
Ci si domanda spesso se c’è una speranza per il Sud-America, per il Brasile, una speranza di qualcosa che cambi, che migliori. E’ difficile rispondere, perché è difficile prevedere il futuro.
In un dramma popolare brasiliano « Morte e vida severina » viene presentato un povero contadino che, per cercare una vita un po’ meno inumana, emigra dai tavolieri e campi aridi dell’interno del Nord-Est, verso terre migliori, verso il mare, verso Recife, la capitale del Nord-Est.
Durante il viaggio incontra solo cortei funebri, gente morta della stessa morte « severina » che è « morte che si muore di vecchiaia prima dei trenta, di imboscata prima dei venti, di fame un poco ogni giorno, (di debolezza e di malattia è che la morte severina attacca in qualsiasi età, anche persone ancor non nate) ».
Ma la situazione man mano che avanza verso Recife peggiora sempre di piú. La speranza sempre alimentata pur di fronte a tanta desolazione, cede il posto alla disperazione piú nera. Disperazione viene trasmessa e alimentata nell’emigrante da tutti gli abitanti delle bidonville di Recife. La soluzione sembra solo quella di uccidersi, gettandosi in quel mare che significava per lui la ricchezza, il benessere, quasi il paradiso.
E’ a questo punto che avviene il colpo di scena. Di fronte a questa desolazione, alla prospettiva di una morte « severina », si sparge la notizia, fra gli abitanti della bidonville, che è nato un bambino. La nascita del bambino riporta a tutti la speranza.
Le donne, gli uomini, lo stesso emigrante, dimenticano tutto per correre ad ammirare la bellezza che c’è in quel piccolo corpo, la speranza che si nasconde in quel piccolo essere.
« Ecco la sua bellezza è qui descritta: è un bambino piccolo e fragile, tanto piccolo che pare settimino, ma in quelle manine si indovinano le mani che creano le cose belle. E’ bello perché è una porta che si apre a più uscite. Bello perché ha di nuovo la sorpresa e l’allegria. Bello come la cosa nuova sulle mensole fino allora vuote. Come qualsiasi cosa che inaugura il suo giorno. O come un quaderno nuovo quando lo si comincia. E’ bello perché col nuovo tutto il vecchio vien contagiato. Bello perché corrompe col sangue nuovo l’anemia. Dà infezione alla miseria con una vita nuova e salutare ».
Anche questa speranza contro tutto è un valore brasiliano. Anche noi, guardando quei bambini, e il Brasile è pieno di bambini, non possiamo incrociare le braccia aspettando, ma sentirci spinti a fare qualcosa, a lottare perché qualcosa cambi nel mondo.
Paolo Tonuccì