Maggio – Ottobre 1972
Dove potremo trovare se non nella religiosità popolare, la forza che noi cerchiamo per la liberazione ?Siamo venuti in Brasile per annunziare il messaggio di Dio. Ma cosa vuol dire annunciare il messaggio di Dio?
Ci dicevano che per insegnare il latino a Pierino, bisogna conoscere e il latino e il Pierino in questione. E siccome c’era da insegnare, nel nostro caso il vangelo, si trattava di darsi da fare per conoscere la gente, perché di vangelo già eravamo professori. Col tempo ci siamo accorti che la grande difficoltà non è solo costituita dal fatto della mancanza di conoscenza della gente, a cui avremmo dovuto inoculare il vangelo, ma anche la mancanza di una vera conoscenza del vangelo.Conoscere la gente, sembra facile. Appena arrivi, senti una facilità tremenda a definire le persone, i comportamenti, a catalogare da una parte le qualità e dall’altra i difetti dei brasiliani. Diciamo così che sono gentili, che sono ospitali, che hanno un sacco di pregi che noi non abbiamo, perché la nostra « civiltà » ce li ha tolti. Ma, pur convinti della bontà di queste caratteristiche, molte volte neppure tentiamo di assumerle, in una continua opera di conversione. Se a prima vista, poi, questa gentilezza ci pare un pregio, ci accorgiamo in seguito che è anche un grande difetto, perché difficilmente la nostra gente ci dirà qualcosa che vada contro le nostre idee, per paura di farci soffrire e allora ascolteranno senza obiettare tutto quello che noi suggeriamo loro, ma il nostro suggerimento non entrerà nella loro vita. La stessa cosa succede coi vescovi: anche se la situazione della diocesi è catastrofica, anche se i sacerdoti sono scontenti, mai un vescovo avrà il coraggio di dire al Papa o al Vaticano il malessere in cui si trova, mai si sforzerà di dare dei suggerimenti che possano andare contro una mentalità corrente, perché non vuole fare soffrire il Santo Padre… Diciamo anche che hanno un sacco di difetti, ma fino a che punto sono difetti veri o sono difetti per noi? Ci ricordiamo sempre che l’uomo brasiliano è il risultato di varie culture (la portoghese, l’africana, l’india…)? Un’accusa che sempre rivolgiamo ai brasiliani è che hanno una pazienza, una prudenza che ha dell’esagerato, che raggiunge il fatalismo. Certamente non è una menzogna, ma sarà un vero difetto o non sarà piuttosto un atteggiamento dettato da un eccessivo realismo? Realismo di persone che hanno alle spalle tutta una tradizione, tutta una cultura di dipendenza, di schiavitù. Persone che hanno i piedi ben piantati in terra e che non se la sentono, istintivamente, di seguire la prima idea che venga loro prospettata. Non se la sentono di seguire insegnamenti e mode e « rivoluzioni » che invece di liberarli, di farli essere se stessi, li porterebbero ad una nuova schiavitù… E così ad ogni manifestazione di questa gente, ad ogni difficoltà che incontriamo, si fa sempre più forte il dubbio: sarà che stiamo comprendendo sul serio questa gente o non sarà piuttosto che stiamo creando degli schemi in cui cerchiamo affannosamente di inserirci delle persone? Molte volte la stessa struttura di Chiesa che stiamo prospettando è qualcosa di « nostro » che non tiene affatto conto dell’anima della gente, dell’ambiente in cui vivono. Allora ci accorgiamo che il guaio di fondo non sta tanto nel fatto di essere degli stranieri, ma nell’avere tutta una cultura teorica, delle tradizioni differenti, nel non partecipare pienamente della vita normale. A volte gli stessi sacerdoti brasiliani sono più stranieri di noi, perché anche loro hanno una cultura totalmente estra.nea all’anima della gente e una comunione col popolo potrà darsi solo nella misura :n cui ci sarà uno sforzo per partecipare alla loro vita. E’ facile riconoscere che la gente soffre la fame, che la gente vive in una struttura sub-umana, ma che ne sappiamo noi delle reazioni, dei condizionamenti che questa realtà porta nella vita di ogni uomo? Sarebbe più onesto cercare insieme, in un ascolto, in un dialogo continuo, fatto di umiltà, in cui le due parti dialoganti si arricchiscono a vicenda. Nel campo più specifico della religione è facile notare che siamo su livelli completamente differenti. Noi siamo in piena religione secolarizzata, che rigetta ogni minima tendenza magica, che non indulge a sentimentalismi, che è ben cosciente della realtà in cui vive… (la nostra realtà), ma le nostre azioni, le nostre parole, le .nostre cerimonie non vogliono dire niente a questa gente, la gente rimane terribilmente passiva… Se notiamo tanto disinteresse, tanta passività nelle nostre chiese, troviamo invece che i culti protestanti (quasi tutti di tipo pentecostale), i culti afro-brasiliani, che fanno leva sull’entusiasmo, sul sentimento, sono molto frequentati e sembrano soddisfare le esigenze di questa gente. Senza dubbio, sarebbe ridicolo che noi usassimo del sentimentalismo, riportassimo in auge cerimonie stantie, anche perché non sarebbero sincere da parte nostra, ma forse dovremmo fare uno sforzo vero per capire la gente, o meglio, per tentare di vivere insieme con loro una esperienza di vita.
Sarebbe anche questo un sistema per capire meglio, in tutta la sua ricchezza, il messaggio del vangelo. Un fatto può essere di aiuto per capire il contributo che la gente ci può dare in questa comprensione. Ero stato invitato a pranzo dal signor Elio, uno degli animatori del movimento di Evangelizzazione. Tutti in famiglia si erano dati da fare per preparare il pranzo. A mezzogiorno, però, non mi sono fatto vivo (semplicemente perché me ne ero dimenticato…) e allora Elio è andato a cercarmi nei vari posti dove avrei potuto essere. Non mi ha trovato, e alla fine è andato fino alla chiesa narrocchiale, facendo quasi due chilometri a piedi. Era ormai passata l’una e Renzo aveva già pranzato. Ma Elio non voleva se.nlire ragione, II pranzo era pronto, qualcuno doveva pur fare onore alla tavola… Ho potuto risolvere la situazione, il giorno dopo, quando, con la coda tra le gambe, sono andato a chiedere scusa e ho mangiato quello che il giorno prima era stato preparato con tanta premura.
Adesso, quando leggo la parabola del convito (Mt. 22, 1-14), guado leggo la preoccupazione del padrone che non vuole che la casa sia vuota, ma si riempia di invitati, penso sempre a Elio e mi pare di poter capire meglio la bontà di Dio, che affronta persino il rischio che il suo amore possa venire male interpretato, come debolezza. Mi pare di avere quasi toccato con mano la rappresentazione drammatica della volontà di Dio che la sua casa si riempia di ospiti. Molte volte parliamo male della religiosità popolare del nostro popolo. Noi vogliamo portare questa gente ad un processo di liberazione e ci pare che la religiosità popolare (fatta di voti, di passività, di fatalismo…) sia un fattore negativo in questo processo. Ma dove potremo trovare, se non nella religiosità popolare, la forza che noi cerchiamo per la liberazione? Abbiamo scoperto con meraviglia che la gente che attingiamo col movimento di evangelizzazione, sta imparando a guardare in faccia la realtà, a giudicarla e anche a volerla cambiare, e tutto questo partendo dal vangelo, dall’affermazione che Dio è nostro padre, che siamo fratelli… Dovremmo, senz’altro, conoscere di più la religiosità del nostro popolo, anche perché è una religiosità completamente mescolata con la sua tradizione, che è entrata nella sua vita. Dovremmo tener presente che, nell’attuale situazione, la religione è uno degli ultimi rifugi, forse l’ultimo, in cui, il popolo può esistere socialmente, esprimere la propria identità e avere una cultura propria. Nella vita sociale il popolo è puro oggetto di forze che molte volte neppure conosce. E il popolo che vuole difendersi da una società che lo schiaccia, si rifugia nella religiosità popolare. Ma in questa società che schiaccia il popolo non ci siamo molte volte anche noi? Non tagliamo un germoglio, perché non entra nei nostri schemi? Vivere la loro esperienza, la loro vita. Sarà senza dubbio, una impresa difficile, sofferta, perché dobbiamo spogliarci di u.n sacco di sicurezze e dobbiamo metterci in cammino, senza sapere dove arriveremo, un pò come Abramo… Un’impresa che esige da noi un continuo ascolto, un continuo essere alunni, noi che vogliamo essere i maestri, noi che volevamo portare il « nostro » messaggio di Dio, noi che confondiamo tante volte la nostra parola con la Parola di Dio, noi che troppe volte guardiamo la realtà per vedere quel che può servirci per confermare le idee che già abbiamo dentro di noi.
Ogni tanto ci verrà voglia di guardare indietro, per dare uno sguardo di rimpianto verso le sicurezze che abbiamo lasciato, ma il vangelo ci ricorda: « Nessuno che, dopo aver messo mano all’aratro, guarda indietro, è adatto per il regno di Dio » (Luca 9, 62).
E’ un cammino verso l’ignoto, anche se sappiamo che stiamo costruendo la Chiesa di Cristo, una co-struzione che nessuno sa come stia crescendo, in cui però tutti stiamo mettendo, con fede, la nostra piccola pietra.
In questa costruzione no.n dobbiamo ripetere vecchie strutture, ed è tanto facile cadere in questa tenta¬zione, accontentandoci di piccole riforme, ma neppu¬re dobbiamo creare delle strutture nuove, che siano emergenza nostra e non di tutta la comunità. Perché dobbiamo pensare che basta la liturgia in volgare e il fare comunicare la gente da sola per¬ché la Messa sia più accessibile?
Non sarebbe il caso di tentare esperienze nuove, in stretto dialogo con la gente, per fare sentire a loro, a noì che la Messa è un incontro di fratelli, è una cena? E’ chiaro che esiste la possibilità di sbagliare, di prendere delle cantonate, ma non sarà una cantonata più grande lasciare che la Messa con¬tinui a non essere compresa, a no.n essere segno? Quello che diventa sempre più necessario è una vera « rivoluzione », che parta dal di dentro di noi, da un cambiamento nostro nel senso di adesione sincera e concreta alla situazione, perché solo così potremo capire il vangelo.
Perché potremo capire ciò che Dio vuole da noi, oggi, qui, solo nella misura in cui prenderemo co-scienza di ciò che Dio ci dice, di ciò che ci chiede attraverso il messaggio della coscienza comunitaria, quale si trova in un determinao momento della storia. Scopriremo allora sempre delle facce nuove del messaggio, capiremo allora che anche noi siamo degli alunni che devono conoscere il vangelo, che sono alla ricerca in una tensione continua.
Scopriremo con gioia che il Signore continua a par-lare, a comunicarsi ai semplici, a quelli che vivono ai margini della Chiesa e della società.
Quando poi cerchiamo di realizzare queste idee, quando cerchiamo di passare dalla teoria alla pratica, allora, ci accorgiamo che sappiamo solo balbettare nelle nostre azioni. Comprendiamo che solo una continua nostra conversione, una continua revisione può salvarci da un fallimento.
La nostra missione deve essere aiutare il popolo a pensare e a capire la ricchezza che possiede, a tirar fuori dal suo tesoro cose nuove e vecchie (cfr. Mt. 13, 52).
E’ duro riconoscere che la nostra missione, la nostra funzione nella costruzione della Chiesa somiglia a quela del concime. La pianta cresce per la forza che ha dentro. Il concime è valido nella mi¬sura in cui rende più vigorosa la forza che è dentro la pianta. E’ valido quando migliora la terra da dove la pianta succhia l’elemento vitale. E’ valido nella misura in cui sparisce, si dissolve.
La pianta è la gente, radicata nella propria situazione, alimentata dal Signore. Noi siamo il concime e la nostra funzione è di essere aiuto; servizio, in un dialogo continuo.
La Bibbia, nel libro di Giobbe, ci presenta una situazione simile a quella in cui noi ci stiamo trovando.
I tre amici di Giobbe avevano sentito parlare della miseria in cui si trovava il loro amico, e vollero andare da lui, per mostrargli la propria solidarietà e per offrirgli l’aiuto per tirarsi fuori da quella terribile situazione. Quando videro Giobbe rimasero oppressi da tanto dolore e non seppero parlare. Compresero che quella miseria doveva avere una causa e questa causa doveva essere combattuta. E partendo dalle proprie idee ben chiare, vollero convincere Giobbe che la causa era quella che loro pensavano. Le loro parole erano di stimolo a Giobbe perché reagisse in conformità al pensiero che loro avevano elaborato e così si liberasse dalla propria miseria e dal proprio dolore. Ma invece di ricevere da Giobbe comprensione, accettazione, ricevettero ricusa e rivolta. Non riuscirono nel loro intento. Nessuna idea loro riuscì ad entrare nella testa « dura » di Giobbe.
Giobbe reagiva sempre e alla fine i tre amici che erano venuti con idee molto chiare si ritrovarono con le loro idee completamente confuse e fasulle. Avevano delle idee chiare, sicure su Dio e sulla vita. Parlavano partendo da un sistema che avevano elaborato con la propria intelligenza. Affermavano di voler difendere la giustizia di Dio e eliminare la ingiustizia dalla vita degli uomini.
Anche Giobbe voleva la stessa cosa, ma lui non partiva da un sistema con delle idee già belle e formulate, parlava partendo dalla propria esperienza di dolore e di miseria.
Guardando le cose dalla situazione in cui si trovava, quelle idee degli amici non portavano nessuna soluzione e neppure gli erano comprensibili.
Alla fine, arrivò la soluzione, ma non arrivò dai tre amici, arrivò dalla nuova coscienza su Dio e sulla vita che era nata in Giobbe, arrivò la soluzione dall’incontro che Giobbe aveva avuto co.n Dio.
I tre amici da maestri diventarono alunni di Giobbe e riuscirono ad incontrarsi con Dio e col senso della vita, grazie appunto a Giobbe.
Così sta succedendo con noi che siamo venuti quaggiù. Il popolo sofferente, marginalizzato, è come Giobbe. Il suo dolore e miseria sono grandissimi. Molti sono gli amici che vengono per discutere sulla causa, sull’origine di questa miseria. Arrivano con le idee già pronte, già catalogate; vo gliono convincere il popolo che sono loro i maestri, che sono loro che hanno in tasca il segreto per risolvere tutti i problemi.
Ma questi amici vengono da lontano e sono lontani dalla vita del popolo, non soffrono « come » e « col popolo », non hanno la storia del popolo Del proprio sangue, non sanno del passato del popolo, delle tradizioni che il popolo possiede e di cui vive. Vanno per liberare il popolo, per insegnargli a liberarsi.
Ma il popolo non reagisce positivamente, si dimostra passivo. Sarà il popolo che non vuol niente, che non vuole imparare quello che gli insegnano, o meglio quello che gli insegnamo con tanto sforzo? O sarà piuttosto l’idea, la nostra idea, che non corrisponde all’anima del popolo? Il popolo non reagisce ai nostri stimoli, il popolo non sta cambiando, ma qualcosa sta cambiando e il cambiamento avviene dentro di noi. Ci stiamo accorgendo che le soluzioni non possono venire da noi, ma dal popolo. Stiamo cominciando a scoprire che le nostre idee, i nostri metodi, le nostre dottrine non sono le idee, i metodi, le dottrine che Dio vuol trasmettere…, che Dio ha già trasmesso a questa gente. E’ il momento in cui dobbiamo dimostrare se siamo o no amici del popolo. E’ il momento della conversione: invece di far sì che il popolo ci ascolti, siamo noi che dobbiamo ascoltare il popolo, nella certezza che ascoltando il popolo stiamo ascoltando Dio. Forse stiamo entrando in questo cammino, che è un cammino difficile, lento, pieno di rischi, pieno di ambiguità, ma che può darci più speranza e che contiene una promessa più grande. A questo punto bisognerebbe lasciar parlare i fatti. Di parole tutti noi siamo stanchi, solo i fatti, le opere possono e devono essere ascoltati e rispettati. Ma un’ultima osservazione si fa necessaria in questo sforzo di camminare con la gente, lasciandoci quasi modellare dalle circostanze, dalla voce di Dio negli avvenimenti. E’ più che urgente che ci rendiamo conto che per realizzare questa nostra conversione è essenziale che siamo uomini di Dio, direi dei contemplativi. Potrebbe sembrare quasi un controsenso, perché alla nostra visione così piccola, molte volte l’unione con Dio sembra un’astrazione dalla situazione concreta. Ma è una necessità che si fa sempre più sentire. Oltre all’arricchimento creatore che una nostra unione con Dio porterebbe al popolo con cui veniamo a contatto, arricchimento non misurabile, ma molte volte visibile e direi quasi toccabile, c’è tutto un apporto che la vita di unione con Dio può recare alla nostra presenza quaggiù.Una persona che cerca di vivere in questo modo, non vuole la propria proiezione, la propria promozione, la vittoria delle proprie idee, ma si pone con umiltà alla ricerca della voce di Dio nelle circostanze. Non si troverà fuori della realtà, cercherà di studiare la realtà economica, politica, sociologica, pur comprendendo che tutte queste scienze possono essere solo un aiuto, perché tutta la realtà trascende e non può essere racchiusa e incapsulata in queste scienze più o meno esatte. Si troverà sempre in ascolto per cantare i segni dei tempi, senza preclusioni, senza preconcetti, sapendo che il Cristo ci parla nei poveri che incontriamo ad ogni passo e che esigono una risposta concreta, decisa… Avrà un’attenzione particolare per le persone singole in cui vede il Cristo. Attenzione che vuoi dire impegno in una lotta per abbattere il peccato che si chiama sfruttamento, mancanza di libertà e che deve essere un impegno vero. Un impegno continuo di conversione personale per combattere le strutture opprimenti che ci circondano. Avrà una grande pazienza, cosciente che non è lui che costruisce, ma il popolo che deve costruire un mondo nuovo, sarà cosciente di essere il concime e perciò non avrà paura di tentare, di arrischiare… Avrà soprattutto una grande fiducia che lo porterà sempre a tentare, a non scoraggiarsi mai, sicuro che come il Cristo ha vinto il male, così noi possiamo cadere, sbagliare, ma alla fine quello che ci aspetta è 13 vittoria. E’ la mancanza di fede che porta tante volte noi cristiani a patteggiare, ad aspettare, ad essere dei diplomatici. Se veramente fossimo uomini uniti al Signore non ci sarebbero più paure, non avremmo più paura di sporcarci, di tentare, di sbagliare, saremmo decisi a tutto, consci che dovremmo essere soprattutto profeti.
PAOLO TONUCCI